Particolarmente confusa appare ancora oggi la delimitazione nosografica del disturbo schizoaffettivo, che non trova accordo neanche nelle classificazioni internazionali. Il DSM-IV lo riconosce come disturbo a se stante, inserendolo nel capitolo intitolato “Schizofrenia e altri disturbi psicotici”. Per la diagnosi è necessario un periodo ininterrotto durante il quale si manifestano un episodio depressivo maggiore, un episodio maniacale o misto, in concomitanza a due dei seguenti sintomi tra deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento grossolanamente disorganizzato e sintomi negativi, per la durata di almeno 1 mese. È inoltre necessario che, per almeno 2 settimane, si manifestino deliri o allucinazioni, in assenza di rilevanti sintomi dell’umore e che questi ultimi si presentino per una considerevole parte della durata totale dei periodi attivi o residui della malattia. Il disturbo non deve essere dovuto agli effetti fisiologici di una sostanza o a una condizione medica generale. Vengono poi contemplati due sottogruppi: bipolare o depressivo.L’ICD-10 adotta criteri di inclusione più ampi, comprendendo tutti i quadri in cui siano presenti sintomi schizofrenici e dell’umore. Sono così inclusi molti di quei casi che per il DSM-IV andrebbero classificati tra i disturbi dell’umore con manifestazioni psicotiche incongrue (riconoscibili in eco, inserzione, furto o trasmissione del pensiero, deliri di controllo e influenzamento, voci commentanti, eloquio disorganizzato, comportamento catatonico).Nel corso della storia, il disturbo schizoaffettivo è stato diversamente considerato come facente parte del disturbo schizofrenico o dei disturbi dell’umore, come quadro indipendente e autonomo o facente parte di un continuum psicotico.Negli USA l’adesione all’impostazione dicotomica kraepeliniana ha visto il disturbo schizoaffettivo inserito nel gruppo della malattia maniaco-depressiva (per cui Kraepelin ha proposto limiti più comprensivi rispetto a quelli per la dementia praecox) e successivamente, dopo la pubblicazione del trattato di Bleuler (1923), nel gruppo delle schizofrenie, essendo proposti dall’autore criteri di inclusione più ampi. Alla fine degli anni Sessanta, col prevalere di teorie più restrittive per la schizofrenia, il disturbo schizoaffettivo è stato nuovamente inglobato nei disturbi dell’umore.L’approccio che vede l’esistenza di una terza psicosi, mista e indipendente da schizofrenia e malattia maniaco-depressiva, ha trovato espressione nei concetti di bouffée delirante, introdotto in Francia alla fine del XIX secolo dalla scuola di Magnan, e psicosi cicloide (Kleist, 1928 e poi Leonhard). Il concetto di psicosi schizoaffettiva in senso stretto è stato introdotto da Kasanin nel 1933, nel tentativo di inquadrare casi con sintomatologia tipica delle due psicosi regrediti dopo alcuni mesi. Altro modello contrastante con quello dicotomico è quello proposto da Beck, sviluppato da Kendell e ripreso da Crow, di un continuum psicotico.Gli studi epidemiologici non forniscono dati certi, ma l’incidenza, inferiore a quella della schizofrenia, dovrebbe variare tra 0,3 e 5,7 per 100.000 per anno, con maggior rischio per le donne. Nei parenti di primo grado è maggiore il rischio di schizofrenia, così come dei disturbi dell’umore, con percentuali intermedie rispetto ai valori trovati in soggetti affetti da uno dei due disturbi.Il decorso è in genere episodico, ma la diagnosi trasversale di disturbo schizoaffettivo non esclude che il paziente possa sviluppare una schizofrenia pura o un disturbo dell’umore. La disabilità psicosociale risulta migliore di quella della schizofrenia e peggiore di quella dei disturbi dell’umore.Dal punto di vista eziopatogenetico, non si dispone ancora di dati sufficienti.La terapia degli episodi schizomaniacali si avvale dell’impiego di sali di litio (che deve raggiungere concentrazioni di 0,6-1,0 mEq/l) associati per le prime settimane a un neurolettico sedativo. Negli episodi schizodepressivi si è dimostrata valida l’associazione di antidepressivi triciclici e neurolettici sedativi. Più recentemente è stato proposto l’impiego, in monoterapia, di antipsicotici atipici (ad es., l’olanzapina) per le intrinseche azioni congiunte antipsicotica, stabilizzatrice dell’umore e antidepressiva.

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