La sclerosi multipla (SM), comunemente definita anche sclerosi a placche (o disseminata e, nel passato, anche nevrassite), è la più frequente tra le malattie demielinizzanti (eponimo: mielinoclastiche) del SNC e rappresenta la principale causa di disabilità neurologica nel giovane adulto. Le lesioni patologiche tipiche della malattia sono costituite da aree circoscritte e irregolari di perdita della mielina, a elettiva localizzazione perivascolare; esse interessano in modo disseminato la sostanza bianca dell’encefalo e del midollo spinale e tendono nel tempo a recidivare e a estendersi. Colpisce individui tra i 20 e i 40 anni, con un picco di incidenza intorno ai 30 anni, anche se esistono casi a esordio giovanile (5% <16 anni) o tardivo; l’incidenza è maggiore nel sesso femminile (1,8:1). Clinicamente, la malattia si manifesta, nella forma classica, con episodi di sofferenza focale del SNC seguiti da remissione spontanea, ma tende, con il passare degli anni, ad assumere un decorso progressivo con importanti deficit funzionali residui. Pur restando sconosciuta l’eziologia, un’anomala attivazione del sistema immunitario, cellulare e umorale, indotta da fattori genetici e ambientali, sembra essere responsabile del danno mielinico, come dimostrato dai modelli sperimentali di malattia e dai numerosi dati clinici e di laboratorio. La sclerosi multipla è pertanto una malattia autoimmune organo-specifica.Epidemiologia. Un notevole contributo alla comprensione eziopatogenetica è stato fornito dai risultati di numerosi studi epidemiologici. La distribuzione geografica è irregolare: in rapporto alla latitudine, sono state delineate zone ad alto rischio (con tasso di prevalenza >30 casi/100.000 abitanti), zone a medio rischio, tra cui l’Europa mediterranea, e zone a basso rischio (<5 casi/100.000), comprendenti le aree equatoriali. Tale variabilità appare principalmente correlata a fattori etnico-razziali, essendo la malattia più frequente nei Caucasici, mentre è rara negli Orientali e negli Africani. L’influenza dei fattori ambientali sembra essere invece avvalorata dalla descrizione di piccole epidemie (isole Faroer, Islanda, Barbagia) e dagli studi condotti sulle popolazioni migranti: esse tendono infatti a conservare il rischio di malattia della zona di origine soltanto se la migrazione è avvenuta dopo il 15° anno di età; se invece lo spostamento è avvenuto nell’infanzia e/o nell’adolescenza, i migranti assumerebbero il rischio del Paese di immigrazione, rendendo plausibile perciò l’ipotesi di esposizione in età infantile a uno o più agenti esogeni responsabili.Eziopatogenesi. Il ruolo dei fattori genetici è confermato dalla diversa suscettibilità razziale, dagli studi familiari e dagli studi sui gemelli. Il 15% circa dei casi di SM ha un parente di primo, secondo o terzo grado affetto; la concordanza tra gemelli dizigoti e fratelli non gemelli è approssimativamente la stessa (3-5%), mentre sale al 23-30% nei gemelli monozigoti. Inoltre, nei parenti clinicamente sani degli affetti sono state dimostrate anomalie alla RM dell’encefalo e nella produzione di Ig intratecali. Sono stati fino a oggi condotti numerosi studi di associazione e di linkage su diversi loci genici, ma solo i risultati degli studi di associazione sulla regione HLA del cromosoma 6 hanno mostrato un legame con la patologia. In particolare, nella popolazione caucasica è stata rilevata un’associazione tra malattia e aplotipi DR2 e DQW1 del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), coinvolto nella presentazione dell’antigene ai linfociti T; il rischio di malattia aumenta di molto se i geni sequenziati sono: DRB1 1501, DQB1 0602, DQA1 0102 e DPB1 0401-2. In pazienti stratificati per l’aplotipo MHC tipico della SM è stata inoltre riportata un’associazione con alcuni loci della catena Vb del recettore del linfocita T (TCR) e utilizzo di Vb 5,2 in tutte le placche. Da ciò si deduce che la SM è una malattia multigenica a tratto complesso, in cui la componente genetica consiste nell’interazione di più geni situati in regioni del genoma anche distanti tra loro e in cui sono necessari fattori ambientali che determinano l’evoluzione in malattia.Sm e virus. L’ipotesi che l’agente esogeno sia un virus è la più idonea per l’interpretazione dei dati epidemiologici.Sebbene finora nessun virus specifico sia stato identificato, alcuni virus sono in grado di produrre encefalopatie demielinizzanti negli animali da esperimento (Coronavirus, Theiler virus e Papova virus-JHM), causando forme acute e recidivanti di malattia simili alla SM. Nel sangue e nel liquor dei pazienti affetti ci sono anticorpi anti-virus del morbillo con titolo più elevato rispetto alla popolazione generale, di significato verosimilmente aspecifico. Infatti, le bande oligoclonali di IgG nel liquor non contengono anticorpi anti-morbillo (diversamente dalla panencefalite sclerosante subacuta) e nell’encefalo non sono mai stati rinvenuti antigeni del virus. Altri virus chiamati in causa sono gli Herpes-viridiae (in particolare HSV-6), per la loro tendenza a persistere nelle cellule ospiti in uno stato latente; il virus Simian V5 e i Retrovirus, alcuni dei quali (HTLV-1) possono causare nell’uomo una malattia demielinizzante cronica nota come paraparesi spastica tropicale. Il virus potrebbe innescare una reazione autoimmune anti-mielina mediante: (1) produzione di anticorpi antivirali con reazione crociata verso antigeni mielinici (mimetismo molecolare tra sequenze virali e mielina) e (2) una primitiva lesione degli oligodendrociti con desegregazione di antigeni mielinici e danno secondario alla mielina. Il virus causerebbe un danno alla barriera emato-encefalica (evento fondamentale nella patogenesi), interferendo con la produzione di citochine e con la regolazione delle molecole di adesione. L’espressione di molecole di adesione può essere indotta, infatti, su cellule del SNC (astrociti, cellule endoteliali e microgliali) in seguito a contatto con linfochine prodotte da linfociti T attivati (IFN-g, interleuchina 1, IL-1) o con particelle virali, così come è dimostrato per l’espressione di antigeni del MHC, indispensabile per il riconoscimento dell’antigene da parte del TCR.Fattori immunologici. L’ipotesi che il danno alla mielina sia immunomediato è supportata dalla presenza di linfociti, macrofagi, plasmacellule e IG negli infiltrati perivascolari; dal peggioramento clinico indotto della somministrazione di g-IFN (immunostimolante) e dal miglioramento indotto dall’IFN-b (a diversa attività immunomodulante) nelle forme remittenti-recidivanti; dall’associazione con alcuni aplotipi HLA e dei geni per TCR e dal riscontro di anomalie immunologiche sieriche e liquorali negli affetti. Inoltre, nell’encefalite allergica sperimentale (EAS), modello sperimentale per tutte le malattie demielinizzanti del SNC e in particolare per la SM, è stata dimostrata una risposta cellulo-mediata nei confronti di alcuni epitopi della mielina (proteina basica della mielina [PBM], e in minor misura proteina proteolipidica della mielina [PLP], glicoproteina associata alla mielina [MAG], glicoproteina della mielina oligodendrocitica [MOG]) nell’ambito di molecole MHC2. Essa viene ottenuta somministrando sottocute nell’animale suscettibile estratti cerebrali e adiuvanti della risposta immune e può essere trasferita nell’animale sano singenico mediante la somministrazione di linfociti T CD4+ sensibilizzati. Nelle fasi acute di malattia è stato dimostrato un aumento nell’espressione delle molecole MHC su cellule del SNC e di alcune molecole di adesione (ICAM 1, MECA325) delle cellule endoteliali e perivascolari. I linfociti migrati in sede perivascolare richiamerebbero poi cellule infiammatorie non antigene-specifiche responsabili del danno mediante la liberazione di linfochine, radicali liberi dell’ossigeno ed enzimi proteolitici. Nell’uomo, il danno mielinico, simile a quello descritto, sarebbe attuato attraverso una risposta immunitaria cellulo-mediata anticorpo-dipendente; secondo tale ipotesi, cloni di linfociti T CD4+ verrebbero attivati da antigeni mielinici (forse PBM). Si suppone poi che i cloni linfocitari encefalitogeni possano essere attivati in modo aspecifico da antigeni minori o superantigeni inseriti nel genoma di retrovirus; tali superantigeni attiverebbero un ampio spettro di linfociti (tra cui quelli patogenetici) legandosi a lato della catena b del TCR invece che nelle regioni variabili.Le principali anomalie immunologiche ematiche riscontrate nei pazienti con SM in fase attiva sono una carente attività soppressoria dei linfociti T (CD8+) associata a un ridotto numero di linfociti T induttori di soppressione (CD45+, CD4+), una ridotta attività delle cellule natural killer (NK), un aumento dei linfociti T attivati, della risposta dei linfociti B ai mitogeni e dell’attivazione dei monociti. Sono inoltre aumentate alcune linfochine prodotte dai linfociti T-helper (Th) 1 CD4+ (IL-2, IFN-g, tumor necrosis factor, TNF-a) nel siero e nel SNC, mentre le fasi di remissione sembrano correlare con l’espansione dei linfociti Th2 produttori di un pattern di citochine differenti (IL-4, IL-10, transforming growth factor, TGF-b) responsabili della risposta anticorpale umorale. Recentemente, è stata dimostrata nelle cellule T di pazienti con MS una funzione deficitaria del recettore FAS, una molecola transmembrana appartenente alla superfamiglia recettoriale dei fattori di necrosi tumorale (TNF).Neuropatologia. Le lesioni tipiche o “placche” sono localizzate tipicamente nella sostanza bianca con predilezione in sede periventricolare, sul pavimento del quarto ventricolo e dell’acquedotto del Silvio, ma sono di frequente riscontro anche nel nervo ottico, nei peduncoli cerebrali, nel cervelletto e nel midollo spinale; talora, si estendono nella sostanza grigia (corteccia e gangli della base). In fase iniziale, le lesioni recenti (soffici e rosa) sono costituite dalla presenza di edema e di un infiltrato di cellule infiammatorie a sede perivenulare che danneggiano la barriera emato-encefalica; in seguito, i macrofagi danno inizio alla distruzione della mielina con successiva degenerazione degli oligodendrociti, mentre gli assoni sono caratteristicamente risparmiati. La proliferazione gliale astrocitaria conduce infine alla sclerosi delle placche. Le placche croniche (dure e grigie) sono caratterizzate da una densa gliosi fibrillare, margini netti, scarsi infiltrati cellulari e da assoni talora danneggiati e privi di mielina. Nelle fasi intermedie, gli oligodendrociti proliferano ai margini della placca nel tentativo di ricostruzione della mielina (placca “ombra”).Clinica. Il quadro clinico risulta estremamente polimorfo (in relazione alla localizzazione delle placche) e i sintomi tendono a variare per natura e gravità durante il decorso. È presente interessamento dei nervi cranici: la neurite ottica retrobulbare (NOR) è il sintomo di esordio più frequente in età giovanile (20%) e la metà circa dei soggetti colpiti da NOR sviluppa in seguito una SM. A lungo termine, la maggior parte dei soggetti con SM manifesta una compromissione del nervo ottico, come evidenziato dalle frequenti alterazioni dei potenziali evocali visivi (PEV) (vedi
Potenziali evocati) e dal frequente riscontro oftalmoscopico di un pallore temporale del disco ottico, mentre più rara è la compromissione in altri settori delle vie ottiche. La diplopia è un sintomo di frequente riscontro sia all’esordio (13%) sia durante il decorso: la causa più frequente è una lesione del fascicolo longitudinale mediale (oftalmoplegia internucleare) seguita dall’interessamento del VI e, più raramente, del III e del IV nervo cranico. Paralisi periferica del VII nervo cranico e nevralgia del trigemino sono eventi più rari, riscontrabili rispettivamente nel 15% e nel 2-3% di tutti i casi. Frequenti sono le vertigini (20%) e l’ipoacusia per coinvolgimento dell’VIII nervo cranico. Tra i disturbi piramidali si annovera un’elevatissima frequenza di disturbi motori (mono-emiparesi, paraparesi spastica), che rappresenta la principale causa di disabilità. Una sindrome midollare evolutiva rappresenta sovente l’espressione clinica delle forme a esordio tardivo. I disturbi sensitivi, spesso presenti all’esordio, sono pressoché costanti durante il decorso sotto forma di parestesie-disestesie, aree di ipo-anestesia o atassia sensitiva. I disturbi vestibolo-cerebellari, raramente presenti all’esordio, sono riscontrabili tuttavia nel 15-20% dei casi, sono principalmente rappresentati da nistagmo, tremore intenzionale, disartria (parola scandita) e atassia, e hanno scarsa tendenza alla regressione. La deambulazione atasso-spastica è un segno di comune riscontro nelle fasi tardive di malattia. Altri sintomi comuni sono i disturbi sfinterici (minzione imperiosa, ritenzione-incontinenza nelle fasi tardive, stipsi), sessuali e i disturbi della sfera affettivo-cognitiva (depressione, ansia, deficit mnesici-attentivi, anosodiaforia). Più spesso è presente una forma di “euforia morbosa”, ovvero di eccitazione ipomaniacale, da interessamento dei lobi frontali. Sintomi rari sono invece le crisi epilettiche (0,5-8%) e i disturbi “parossistici” con durata inferiore al minuto (emispasmo facciale, spasmi tonici emi-monolaterali, dolori trafittivi, segno di Lhermitte, nevralgia trigeminale, disartria-atassia). Questi ultimi sono spesso scatenati dai movimenti e dalle stimolazioni sensitive e vengono attribuiti all’attivazione “efaptica” (per contiguità) di un fascio di fibre all’interno di una placca. Per quanto inusuali, vengono infine descritti sintomi extrapiramidali (movimenti coreo-atetosici), afasia ed emianopsia.Decorso e forme cliniche. L’esordio è monosintomatico nel 50% circa dei casi e più frequentemente si manifesta con NOR, disturbi piramidali e sintomi sensitivi. Sulla base del decorso vengono distinte 3 forme cliniche: (1) remittente-recidivante (RR), (2) remittente-progressiva o secondariamente progressiva (RP) e (3) cronica progressiva (CP). Il primo tipo, clinicamente eterogeneo, si caratterizza per l’alternarsi di poussées e periodi di stabilità (con o senza sequele) ed è presente nel 70% degli stadi iniziali di malattia, soprattutto nei casi a esordio precoce. L’intervallo libero è variabile, ma la frequenza delle ricadute sembra essere maggiore nei primi anni. Dopo un periodo variabile (5-20 anni), il decorso tende per lo più a divenire progressivo, con o senza sovrapposte ricadute, configurando la forma remittente-progressiva. Si segnala inoltre la presenza di una variante benigna, caratterizzata da poussées paucisintomatiche e scarsa tendenza evolutiva. La SM acuta (di Marbourg) rappresenta invece la rara forma iperacuta di malattia, con decorso tumultuoso ed esito letale dopo alcuni mesi; il processo infiammatorio è di notevole entità e conduce alla distruzione non solo mielinica, ma anche assonale. La forma cronica progressiva (15% dei casi) è tipica dei casi con esordio tardivo (>40 anni) e si correla a una disabilità neurologica entro pochi anni; si caratterizza solitamente come una mielopatia cronica progressiva o una sindrome cerebellare progressiva. I principali fattori intercorrenti che possono riacutizzare la malattia sono il puerperio e le infezioni simil-virali, mentre la febbre e l’aumento della temperatura ambientale sembrerebbero aggravare l’espressione dei sintomi peggiorando la conduzione nervosa. L’invalidità è in relazione prevalentemente alla gravità dei disturbi piramidali, cerebellari e visivi. Le aspettative di vita sono ridotte solo di alcuni anni e la morte interviene per cause legate alla disabilità (broncopolmoniti, polmoniti ab ingestis, complicanze settiche).Per quanto concerne le sindromi demielinizzanti circoscritte (neurite ottica, mielite trasversa, m. di Devic) e diffuse (m. di Schilder, sclerosi concentrica di Von Balò), vedi
Demielinizzanti, malattie.Diagnosi. Si basa su dati clinici e “paraclinici” (mediante RM encefalo e potenziali evocati) e sull’esame del liquor. La diagnosi di “SM clinicamente definita” si basa sul riscontro di 2 episodi (di durata >24 ore) comparsi a un intervallo di almeno 1 mese, a topografia lesionale diversa in base all’evidenza clinica o paraclinica. Qualora si siano verificati due episodi con evidenza di una sola sede lesionale o in presenza di due sedi lesionali nell’ambito dello stesso episodio, la diagnosi è “definita dal laboratorio” in presenza di riscontro di bande oligoclonali (o di aumento della sintesi intratecale di IgG) nel liquor. Nel caso in cui uno di tali criteri non risultasse soddisfatto, la diagnosi resta “probabile”.Esame del liquor. Una modesta pleiocitosi linfocitaria si correla talora con lo stato di attività della malattia e le proteine totali possono essere lievemente aumentate. Il reperto più caratteristico è l’aumento delle IgG le quali, come è dimostrato dai valori dell’indice di link (>0,69), derivano in massima parte da una sintesi intratecale. Mediante l’isoelettrofocusing e tecniche più sofisticate (immunoblotting) è inoltre possibile una dimostrazione qualitativa di tale sintesi, evidenziando una ristretta eterogeneità assente nel siero (bande IgG oligoclonali e talora bande di catene leggere). Tale pattern, presente nel 90% dei pazienti con SM, non è tuttavia specifico, potendosi riscontrare in altre infezioni subacute e croniche del SNC (neurolue, neuroborrelliosi, infezione da HIV) o raramente in soggetti normali. Esso compare precocemente nel corso di malattia e tende a rimanere costante nel tempo.RM encefalo. La sensibilità diagnostica di tale esame raggiunge il 95% nelle forme clinicamente definite. Evidenzia alterazioni multifocali della sostanza bianca che appaiono come aree di aumentato segnale nelle sequenze pesate in T2 e in densità protonica. Tali aree non sono un reperto esclusivo della malattia, potendosi riscontrare in corso di vasculopatie, infezioni, vasculiti, in alcuni soggetti emicranici e raramente in individui asintomatici. Tuttavia, la preferenziale localizzazione periventricolare e sottotentoriale delle lesioni e la comparsa in tempi successivi rendono alcuni reperti altamente suggestivi per SM. La specificità può essere aumentata con la somministrazione del gadolinio-DTPA, che viene precocemente accumulato (iperintensità in T1) a seguito del danno di barriera a livello di placche attive. Le lesioni dei pazienti con SM si trovano di norma in diversi stati evolutivi, essendo il gadolinio captato solo da alcune delle placche visibili in T2 e da altre aree non ancora evidenziabili in tale sequenza. Studi seriati condotti nello stesso paziente hanno evidenziato, nelle forme RR e RP, che non esiste una stretta correlazione tra lesioni e sintomi: la frequenza di nuove lesioni è maggiore delle ricadute cliniche. Non sembra inoltre esistere correlazione tra entità del carico lesionale e disabilità, dimostrando come altri fattori possano influire sulla prognosi.Potenziali evocati . Consentono di individuare lesioni asintomatiche attraverso l’aumento della latenza dei potenziali, dimostrando quindi la disseminazione spaziale della malattia. La sensibilità diagnostica è comunque inferiore a quella della RM, con la sola eccezione dei potenziali evocati visivi. La latenza della componente P100 risulta alterata nel 90% circa dei pazienti con e nel 50% circa dei pazienti senza disturbi visivi. Sovente alterati risultano inoltre i potenziali evocati sensitivi (60%) e i potenziali evocati motori (65%). I potenziali evocati rivestono particolare utilità nei casi in cui si sospetta una genesi funzionale di sintomi neurologici.Diagnosi differenziale. Oggi semplificata grazie all’impiego della RM, va posta nei confronti dell’encefalomielite acuta disseminata, dell’encefalopatia vascolare sottocorticale, delle vasculiti, della sindrome da anticorpi antifosfolipidi, encefalopatia da HIV, interessamento cerebrale multifocale secondario a neoplasie e infezioni sistemiche (endocarditi). Nelle forme a elettiva localizzazione midollare, la diagnosi differenziale si pone con i processi mielitici acuti e cronici, tumori intra-assiali e mielopatie vascolari (ischemie, fistole durali).Terapia dell’attacco acuto. Nelle forme RR, le poussées di lieve entità non necessitano di alcun trattamento, data la loro spontanea tendenza alla regressione. La terapia elettiva in caso di esacerbazioni medio-gravi si attua mediante l’utilizzo di steroidi ad alte dosi. Il metilprednisolone ad alte dosi migliora sensibilmente il quadro clinico fin dai primi 3-5 giorni di trattamento. Esso riduce la frequenza delle ricadute, ma non sembra tuttavia poter influenzare il decorso naturale della malattia. Pur non esistendo ancora studi controllati che stabiliscano la miglior dose e la durata del trattamento, lo schema più utilizzato prevede l’impiego iniziale di 1 g e.v. Tale farmaco, se utilizzato per 8-10 giorni alla dose di 1 g, sembra in grado di ridurre persistentemente (per 2 mesi) i segni paraclinici di malattia evidenziati in RM. In pazienti con neurite ottica, il metilprednisolone (1 g/die per 3 giorni e successiva riduzione graduale) riduce il rischio di sviluppare un’evidenza clinica di SM per 2 anni, mentre il prednisone per os alla dose di 100 mg/die sembra avere effetto peggiorativo sull’evoluzione. L’efficacia clinica del metilprednisolone si basa sull’effetto antiedemigeno e antinfiammatorio; dotato di effetto immunosoppressore, induce linfocitolisi, riduce l’attivazione linfocitaria, l’espressione degli antigeni MHC2 e la secrezione di IL-1 e TNF da parte dei macrofagi.Terapie sintomatiche.Spasticità: baclofen 50-100 mg, tinazidina 12-18 mg, diazepam 5-20 mgManifestazioni “parossistiche”: carbamazepina 200-800 mgParestesie e mialgie: amitriptilina 30-60 mgAffaticamento: amantadinaMinzione imperiosa: anticolinergici (propantelina)Rieducazione neuromotoria.Terapie immunosoppressive. Gli obiettivi delle terapie immunosoppressive attualmente in corso di sperimentazione nelle diverse forme cliniche consistono nel rallentamento della progressione della malattia e nella prevenzione delle ricadute. L’efficacia terapeutica viene valutata in base alla clinica, all’evoluzione dei quadri ottenuti in RM e mediante lo studio dei potenziali evocati.Azatioprina (AZA). È il farmaco immunosoppressore usato da più lungo tempo nella terapia della SM, alla dose di 3 mg/kg/die, inibisce la sintesi delle purine e dunque la replicazione cellulare linfocitaria. I risultati di una metanalisi dei lavori più significativi hanno dimostrato una piccola, ma significativa differenza per quanto riguarda il rischio di ricadute a vantaggio del gruppo trattato con AZA rispetto al placebo (già presente a 1 anno con incremento dopo 2 anni e mantenimento dopo 3 anni). Appare pertanto indicata nei pazienti con decorso remittente a elevata frequenza di ricadute, in una fase precoce di malattia, mentre i vantaggi nelle forme CP restano dubbi, essendo stata dimostrata l’assenza di effetti significativi sulla disabilità residua a 1 e 3 anni.Methotrexate. Utilizzato a basse dosi per os (7,5 mg alla settimana) rallenta lievemente l’evoluzione nelle forme CP.Interferoni (IFN). Costituiscono una famiglia di citochine dotate di proprietà antivirali e immunomodulanti; si distinguono in IFN tipo I (a e b, molto simili tra loro) e tipo II (g). La somministrazione sistemica di IFN-g peggiora l’EAS e induce un aumento delle ricadute attraverso un aumento dell’espressione degli antigeni MCH2 e delle molecole di adesione. Gli IFN tipo I sono dotati invece di azione immunosoppressiva (aumento dell’attività linfocitaria soppressoria, riduzione dell’espressione di MCH2): somministrati in pazienti con forme RR, riducono il numero e la gravità delle poussées, così come la comparsa di nuove lesioni in RM.La maggior parte degli IFN tipo I sono stati clonati e risultano disponibili come prodotti ricombinanti:rIFN2-a: i risultati di un trial clinico condotto in Italia nelle forme RR (9 MIU i.m. a giorni alterni) hanno documentato una significativa riduzione di attività della malattia. Il farmaco deve essere tuttavia utilizzato con cautela data l’elevata incidenza di effetti collaterali (affaticabilità, depressione).rIFN-b-1a: somministrato alle dosi di 6 MIU i.m., ha dato buoni risultati nelle forme RR.rIFN-b-1b: somministrato alla dose di 8 MIU s.c. a giorni alterni, si è dimostrato più efficace del precedente nel ridurre la gravità e la frequenza delle ricadute. Inoltre, sono in corso altri studi relativi alla riduzione di invalidità a lungo termine e all’utilità del farmaco nelle forme progressive. I principali effetti collaterali in corso di terapia con IFN sono: febbre (responsiva al paracetamolo), astenia, depressione, aumento degli enzimi epatici, modica leuco-piastrinopenia e comparsa di patologie autoimmuni.Copolimero 1 (Cop 1): inibisce l’EAS mediante meccanismo competitivo nei confronti della PBM per il sito di presentazione alle cellule immunocompetenti. Riduce la frequenza delle ricadute nelle forme RR, ma resta ancora incerta la sua attività sui parametri di RM e nelle forme progressive. La terapia prevede iniezioni s.c. quotidiane di 20 mg/die e non sembra gravata da effetti collaterali.Mitoxantrone (MTX): somministrato e.v. ad alte dosi (boli mensili con 20 mg), sembra indurre una riduzione significativa delle ricadute, della disabilità e del numero delle lesioni attive in RM, mentre non si è finora dimostrato utile nelle forme CP.Altri farmaci: la ciclosporina nelle forme progressive rallenta la progressione della malattia, mentre non sembra esercitare beneficio nelle forme remittenti. L’elevata nefrotossicità ne controindica però l’utilizzo. Per quanto riguarda la ciclofosfamide (talora associata a plasmaferesi), mancano giudizi definiti sulla sua efficacia; i migliori risultati si sono ottenuti in soggetti con più di 40 anni affetti da forme secondariamente progressive. L’associazione della terapia steroidea con l’irradiazione linfoide totale sembra migliorare in modo significativo la prognosi delle forme CP, ma gli effetti collaterali rendono tale terapia di difficile applicazione.Immunoterapia selettiva. Sono attualmente in corso studi sperimentali che mirano a impedire l’attivazione dei cloni linfocitari autoreattivi e a favorire l’immunoregolazione (anticorpi monoclonali anti-CD4, anti-TCRVb e anti-MHC II, uso della tolleranza orale alla mielina, vaccini con linfociti T e peptidi del TCR), ma nessuno di tali studi si è per ora rivelato clinicamente efficace.